L’avventura di insegnare. L’ultima intervista ad Alberto Manzi – di Roberto Farnè

Quella che presentiamo di seguito è l’intervista ad Alberto Manzi realizzata il 13 giugno 1997 nella sua casa di Pitigliano (GR), il paese di cui era sindaco e nel quale risiedeva da dieci anni con la famiglia¹. Il 4 dicembre 1997 Alberto Manzi moriva e questa intervista, l’ultima che ha rilasciato, assume così un significato particolare poiché egli ricostruisce, con una capacità di sintesi e una efficacia narrativa che facevano parte delle sue eccezionali doti comunicative, il quadro completo delle sue esperienze di maestro.

Nato a Roma nel 1924, figlio di un tramviere e di una casalinga, Manzi aveva seguito un doppio percorso formativo: l’istituto nautico e quello magistrale, fino a laurearsi prima in biologia, poi in pedagogia e in filosofia, avendo maturato sempre di più l’interesse verso l’insegnamento. Anche se egli divenne famoso come conduttore del programma televisivo Non è mai troppo tardi, realizzato dalla RAI fra il 1960 e il 1968 per la lotta all’analfabetismo e dove Manzi dimostrò uno stile didattico e comunicativo di rara efficacia, il suo lavoro di insegnante e di educatore fu caratterizzato da una molteplicità di esperienze.

Subito dopo la guerra, aveva insegnato per un anno nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma, un’esperienza che lo segnò profondamente sul piano pedagogico e poi, dagli anni Cinquanta, nelle scuole elementari. Dopo Non è mai troppo tardi, la sua collaborazione con la RAI proseguì con programmi radiofonici e televisivi sempre orientati su tematiche che riguardavano la scuola e l’educazione. L’ultimo suo lavoro in Tv fu nel 1992: si chiamava Insieme ed era un programma di RAI 2 per insegnare l’italiano agli extracomunitari, mentre per la radio ricevette nel 1996 l’incarico da RAI International di tenere un programma per gli italiani all’estero.

Se si esclude il periodo di Non è mai troppo tardi, Manzi non abbandonò mai la scuola e continuò ad insegnare fino al 1985, anno in cui andò in pensione. Egli considerava la classe con i suoi ragazzi il vero laboratorio in cui mettere alla prova le idee e i metodi per cambiare la didattica. Nel 1981 riceverà una sospensione per essersi rifiutato di compilare i giudizi sulle schede di valutazione.

Un’altra importante esperienza è costituita dai suoi frequenti viaggi in paesi dell’America Latina dove, fra gli anni Cinquanta e Settanta, andò a trascorrere periodi di tempo insegnando a leggere e scrivere a gruppi di analfabeti e studiando le condizioni sociali e culturali di una umanità tenuta nell’ignoranza e nello sfruttamento.

Il suo lavoro di educatore è da una parte la testimonianza di una continua ricerca pedagogica e didattica per migliorare la qualità dell’istruzione a partire dai soggetti più difficili, perché rimasti lontani dalla scuola o perché rifiutati dalla scuola. Dall’altra di un impegno volto a dare senso al lavoro educativo e alla responsabilità di cui esso è carico, per cui l’insegnamento si costruisce e si accompagna sempre a una presa di coscienza sulla realtà in cui avviene.

I temi della libertà e della solidarietà, dell’avversione per ogni forma di violenza e per il razzismo, del rapporto fra l’uomo e il proprio ambiente hanno accompagnato e caratterizzato l’attività didattica di Alberto Manzi, ed emergono in maniera suggestiva nella sua ricca produzione di libri per ragazzi che vanno dall’educazione scientifica, a cui ha sempre dedicato un interesse speciale, alla narrativa, dai testi scolastici alle raccolte di fiabe. Capace di conciliare il registro della fantasia con un linguaggio aderente alla realtà, la narrativa di Manzi, di cui ricordiamo almeno Grogh, storia di un castoro (1952) e Orzowei (1955) fra i suoi primi titoli, La luna nelle baracche (1974), El loco (1979), Tupiriglio (1988) fra i più recenti, è animata da uno spessore etico senza cadute moralistiche o didascaliche.

Quella di Alberto Manzi si presenta come una delle personalità più ricche e significative della pedagogia italiana contemporanea, coetaneo di Mario Lodi e don Lorenzo Milani, anch’egli ha fatto della didattica e della comunicazione, in una scuola rivolta soprattutto agli ultimi, il proprio campo di ricerca e riuscendo, per primo, a portare una platea televisiva in un’aula scolastica virtuale.

Vorrei partire, se lei è d’accordo, con la sua formazione: come è diventato insegnante, attraverso quali esperienze e quali scelte?

Il mio sogno da ragazzo era di fare il capitano di lungo corso, per cui ho studiato all’Istituto Nautico, ma, contemporaneamente, studiavo all’Istituto Magistrale che, allora, era gratuito per i maschi.

Comunque, non avevo nessuna intenzione di fare il maestro, come non avevo nessuna intenzione di fare la guerra e ho finito per fare sia l’uno che l’altra. Facendo la guerra, poi, ho scoperto che tante cose per cui si pensava che valesse la pena vivere erano solo delle falsità.

Ho continuato a studiare, ho fatto l’università a Roma: biologia alla facoltà di Scienze naturali, però pensavo sempre al mestiere di maestro. Soprattutto dopo l’esperienza della guerra, l’idea fissa che avevo era di aiutare i ragazzi.

Che preparazione avevo quando iniziai a fare questo mestiere…? Da una parte era la solita preparazione universitaria; dall’altra, per esempio, cercavo di capire lo scoutismo per vedere quanto poteva essere preso da questo metodo educativo per rinnovare un po’ la scuola, per cambiare certe cose che non mi piacevano. Poi, nel 1946, appena tornato dalle armi, l’esperienza decisiva me l’ha fatta fare il ministro della Pubblica Istruzione, che mi ha sbattuto ad insegnare a una classe di 94 alunni nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. Questi ragazzi andavano dai 9 ai 17 anni e mezzo ed erano suddivisi non per grado di cultura, ma in base al loro reato e alla pena che dovevano scontare, cioè quelli condannati per ferimento di persona, gli assassini, minaccia a mano armata ecc. ecc.

È stata l’esperienza che mi ha costretto a progettare un modo diverso di fare scuola, perché fra questi ragazzi c’erano sia gli analfabeti, sia alcuni che avevano frequentato il primo e il secondo anno di liceo.

Ci può spiegare com’era l’ambiente di quel carcere minorile e quali difficoltà ha incontrato per costruire un rapporto con i ragazzi?

Nel carcere minorile di allora vigeva ancora il regolamento di Pio IX: non c’era un’aula, non c’erano banchi, non c’erano sedie… C’era una enorme sala dove vivevano questi 94 ragazzi, ognuno nel proprio cubicolo che era una sorta di cubo ricavato dentro la parete, con un cancelletto a sbarre da cui loro potevano vedere nella sala.

La mattina le guardie carcerarie aprivano questi cancelletti e i ragazzi dovevano aspettare l’insegnante sull’attenti davanti al loro cubicolo. In fondo a questa enorme sala c’era un altare dove, la domenica o le altre feste, ci si riuniva per la messa.

Non era possibile usare le matite, perché con la matita si potevano trasmettere dei messaggi; non era possibile usare le penne, perché le penne allora avevano il pennino e il pennino poteva servire come arma per farsi male o per fare male ad altri. Non c’erano libri, non c’era niente… e bisognava risolvere il problema di come interessare questi ragazzi, che non avevano nessuna voglia di stare a scuola. C’erano già stati quattro maestri prima di me e io fui mandato perché, come al solito, le graduatorie dei Provveditorati non venivano rispettate… Avevo poco più di 22 anni e potevo sembrare un ragazzo come loro, anche perché dimostravo meno della mia età.

Siccome mi vergognavo di fare scuola davanti alle guardie, chiesi loro di aspettare fuori e loro mi risposero: «No, non è possibile, altrimenti la picchiano!». Allora io dissi: «Se mi picchiano, io strillo e voi aprite», e così mi chiusero dentro.

All’inizio i ragazzi mi avevano preso per uno di loro, e qualcuno mi chiedeva: «Perché ti hanno pizzicato?», e io rispondevo: «E a te perché?…». Così, in poco più di un’ora, sapevo a sommi capi la storia di ciascuno; alla fine un ragazzo disse: «’sto maestro quando arriva?», e un altro: «Quando arriva ci pensiamo noi, gli facciamo…» .

Ad un certo punto ho detto che il maestro ero io e subito qualcuno di loro mi ha detto: «Sai che facciamo? Tu ti metti là in fondo, ti porti il giornale, se fumi ti porti le sigarette e noi per quattro ore stiamo tranquilli, nessuno ci rompe le scatole e avremo quattro ore di libertà».

La mia risposta fu: «Pure a me andrebbe bene, ma lo Stato mi paga, poco, però mi paga e io devo fare scuola. Perciò io faccio scuola e voi dovete cercare di…» .

«Allora te la giochi», mi interrompe uno dei ragazzi e mi indica il loro capo, che si chiamava Oscar.

«Ce la giochiamo – dice Oscar – se perdo io, tu farai scuola, se ci riesci. Se vinco io, tu ti metti lì nell’angoletto».

A quel punto ho detto: «Vabbè, tira fuori le carte…». «Le carte?! Qui a cazzotti si gioca».

Io avevo fatto quattro anni in marina, per cui avevo imparato… Mi è dispiaciuto, ma alla fine l’ho picchiato.

Questo è stato il mio primo incontro con la scuola e credo che quell’esperienza mi abbia formato come insegnante.

Immagino che, anche successivamente, le difficoltà non siano mancate;  a quel punto si trattava di impostare un lavoro didattico con dei soggetti difficili che, almeno in partenza, mi sembra di capire che non si  mostravano disponibili ad essere educati. Come è riuscito a costruire un rapporto con quei ragazzi, che metodi e tecniche ha utilizzato?

Per un mese io entravo e loro non mi rivolgevano la parola, non mi guardavano, mettevano la faccia contro il muro e io parlavo, parlavo, raccontavo, portavo il giornale, leggevo… geografia, scienze, storia… niente. Poi pensai che dovevo trovare il modo di rompere quel muro e così cominciai a raccontare, inventandomela, una storia di castori che cercavano la libertà. Vedevo che loro mi seguivano e così sono andato avanti per un po’ di giorni e poi ho detto: «Se la volete questa storia, allora scriviamola, perché io altrimenti non me la ricordo più».

Per scriverla però bisognava avere gli strumenti necessari; mi ricordo che andai dalla mia vecchia maestra elementare, che ancora insegnava nella scuola vicino casa e le chiesi tutti i mozziconi di matita che poteva darmi. La mattina dopo, quando tornai al Gabelli, mi infilai tutti questi pezzi di matita nei calzini, perché, ogni volta, prima di entrare, mi perquisivano…

Con questi ragazzi, dopo un mesetto di contrasti, sono riuscito a parlare, ad interessarli a qualcosa; poi abbiamo cominciato a scrivere un giornalino che credo sia stato il primo giornale scritto in un carcere minorile: era intitolato “La tradotta”. I ragazzi mi davano i loro “articoli”, diciamo così, e io li riscrivevo su fogli di carta che erano buste del pane aperte; il forno dove compravo il pane mi regalò 96 buste e io la sera le aprivo e ci scrivevo i testi dei ragazzi. Devo precisare che, nell’anno scolastico 1946-47, il mio stipendio era di 9.000 lire al mese e ne pagavo 11.000 per l’affitto della casa…

Alla fine, andai dal direttore e gli dissi che io dovevo farli scrivere, altrimenti non era possibile fare il giornale. E così, col pretesto di scrivere la storia del castoro, abbiamo scritto il nostro giornale, e il giornale serviva perché chi non sapeva scrivere imparava anche con l’aiuto del compagno. Ne è venuto fuori un lavoro di gruppo dove ognuno dava quello che poteva sotto ogni aspetto. Da quella storia poi è venuto fuori il mio primo libro per ragazzi: Grogh, storia di un castoro².

Poi, il direttore del carcere, che era una persona veramente aperta, superò il regolamento, lesse le prime copie di questo giornalino, si mise in rapporto con una tipografia e lo fece stampare con una bella veste tipografica; così aumentò l’interesse dei ragazzi. Per tutti loro scrivere un giornale significava avere uno spazio in cui ognuno poteva dire ciò che voleva, anche attaccare l’Amministrazione. Grazie a un tipografo che aveva dato un po’ di lezioni, alcuni impararono a lavorare in tipografia e così il giornale lo stampavano gli stessi ragazzi.

Devo precisare che su 94 ragazzi, 18 erano completamente analfabeti; gli altri avevano fatto, bene o male, la scuola elementare, anche se non tutti l’avevano finita. Due di loro avevano fatto il liceo; li ricordo bene, erano due ragazzi di Roma, figli di famiglie benestanti, che avevano assassinato un architetto a Piazza Vittoria.

Molti di quei ragazzi poi si vollero presentare all’esame: alcuni si prepararono per quello di terza elementare, altri per quello di quinta, altri andarono all’avviamento professionale…

In questo modo lei ha scelto un metodo che cercava soprattutto di far leva sull’interesse dei ragazzi come motivazione ad imparare e su cui poter costruire anche il lavoro di gruppo; un modo di fare scuola, mi sembra di capire, chiaramente orientato alla pedagogia dell’attivismo. Oltre alla creazione del giornale, ci sono state altre esperienze che hanno caratterizzato il suo lavoro di insegnante nel carcere minorile?

Oltre al giornale, abbiamo preparato una recita, utilizzando lo spazio dove c’era l’altare come una sorta di palcoscenico. Ricordo che una volta entrò il monsignore mentre stavamo provando, era una persona squisita e disse ai ragazzi che potevano tranquillamente continuare ad utilizzare quello spazio perché, indicando il crocefisso sopra l’altare: «Non lo vedete? Lui sta con le braccia aperte perché vi accoglie tutti».

Ormai, la storia del castoro era finita, ma i ragazzi avevano preso gusto a fare molte cose.

Soprattutto il direttore ebbe fiducia e mi consentì anche di portare questi ragazzi fuori dal carcere. Ho fatto con loro dei campeggi in provincia dell’Aquila, senza la presenza delle guardie; dicevo loro quello che dovevano fare, quello che ci aspettavamo, e loro l’hanno fatto così bene che di tutti quei ragazzi, quando sono usciti dal carcere, solo 2 su 94 sono rientrati in prigione.

Poi, dopo un anno, sono andato via.

Da quanto ci ha raccontato finora, emerge una competenza e una qualità pedagogica nel lavoro che ha svolto al Gabelli che non si può dire sia semplicemente il frutto di vocazione o di improvvisazione…

È vero, ho studiato e imparato molto durante quell’anno, volevo andare avanti e capire certe cose… Attraverso il Gabelli ho cominciato a studiare quella pedagogia che all’istituto magistrale non avevo fatto, perché lì si fa storia della pedagogia, non si entra nell’anima dei problemi. Poi fui fortunato, perché in quegli anni incontrai il prof. Volpicelli, col quale iniziai i miei studi di pedagogia. Lo frequentai prima come studente e poi, dopo la laurea, quando mi ha voluto presso di sé come assistente. Nel 1953 feci il direttore della Scuola Sperimentale della Facoltà di Magistero all’Università di Roma; solo per un anno, perché anche quella scuola non mi piaceva: non si sperimentava niente…

Così, sono diventato un “cane sciolto”: avevo vinto il concorso magistrale, avevo fatto l’università e una serie di esperienze, ma ho sempre continuato a studiare: credo che questa sia la cosa più bella, cercare di conoscere e scoprire di non sapere mai abbastanza.

Le ho provate tutte per cercare di trasformare questa benedetta scuola, nel rispetto del bambino, perché questo è il punto fondamentale. Mi chiedevo, allora, per quale motivo la scuola ignorava gli studi di Piaget e di altri sulla formazione del concetto? Vygotskij, per esempio, era ignorato anche all’università in quegli anni. Quando io dicevo che, se volevo sollecitare la formazione di un concetto scientifico nel bambino, dovevo agire in un certo modo, tutti i colleghi pensavano che io ero un insegnante un po’ strano e non mi seguivano. Io comunque provavo con i miei ragazzi; loro sono stati un po’ quelli che mi hanno aiutato a capire molte cose.

L’educazione scientifica è sempre stata un suo “centro d’interesse”  dal punto di vista didattico, una specie di saldatura tra la sua formazione originaria in scienze naturali e quella pedagogica. Ne sono una testimonianza le numerose pubblicazioni di tipo didattico e divulgativo che lei ha realizzato su argomenti naturalistici…

Voglio raccontare un episodio. Un bambino di seconda elementare, si chiamava Marco, non ricordo per quale motivo, all’interno di una discussione che si stava facendo in classe, mi dice: «Maestro, lo sai che ci sono le corde vocali?»

«Che ne sai delle corde vocali? A che servono?»

«Il babbo mi ha detto…»; mi accorsi che Marco aveva avuto una certa informazione… una conoscenza di qualcosa che però non poteva verificare direttamente.

«Le corde vocali sono 21»; questa affermazione di Marco mi fece subito drizzare le orecchie e gli chiesi il perché.

«Quante sono le lettere dell’alfabeto?…» , mi disse Marco.

Dentro di me ho pensato: lui ha due esperienze, o meglio, una esperienza e una conoscenza. Da una parte egli ha l’esperienza delle lettere dell’alfabeto, che conosce e utilizza; dall’altra ha una conoscenza data da qualcuno che gli ha detto che ci sono le corde vocali. Cosa ha fatto Marco? Ha legato queste due esperienze/conoscenze e ne ha tirato fuori un concetto.

Allora io, per metterlo alla prova, gli ho detto: «Ma se voglio dire y?», e Marco, prontamente, mi fa: «Maestro, si vede che non capisci niente! Y è fatta da i, p, s, i, 1, o, n. Tu, con queste 21 corde ci parli tutte le lingue!».

Come potevo dimostrare che era un concetto sbagliato? O sgozzavo qualcuno e gli facevo vedere che le corde vocali sono 4 e non 21, oppure glielo imponevo, però l’imposizione non forma un concetto scientifico, si dimentica facilmente oppure rimane nella mente ma non provoca una crescita intellettuale.

Ci pensai un paio di giorni, poi andai a scuola con un violino. Un violino ha quattro corde e con l’archetto ho cominciato a strimpellare e ho fatto provare anche a loro, anche Marco che ad un certo punto ha detto: «Che strano, un violino ha quattro corde, eppure quanti suoni fa!». Non so se poi lui ha modificato il concetto che aveva, ma sicuramente è rimasto colpito da quell’esperienza.

Ciò che andavo scoprendo e che mi interessava era che dentro la scuola bisognava ottenere una tensione cognitiva, una curiosità che spinge i bambini a voler sapere. Ovviamente, è necessario che io sappia quello che lui sa, perché questa è la condizione per avere dei punti di riferimento attendibili.

La discussione era un ottimo strumento; un ragazzo che cominciava ad affermare una cosa, ascoltando gli altri che esprimevano ognuno la propria ipotesi su un certo fenomeno, se all’inizio era convinto che quella cosa era nera, poi cominciava a dire che era nera, ma alcune parti potevano essere gialle o verdi… Questo discutere insieme, che non durava in genere più di venti minuti, portava i ragazzi a rivedere quello che loro sapevano, o credevano di sapere, obbligandoli in un certo senso a parlare e ad ascoltare gli altri esprimere le proprie opinioni.

Se nel momento in cui spiego scienze dico che un corpo galleggia perché riceve una spinta dal basso verso l’alto ecc. ecc., è perfettamente inutile perché nessuno se lo ricorda e ne capisce veramente il significato. Se invece metto davanti ai ragazzi tanti oggetti e poi dico: «Quali fra questi galleggia, e secondo te perché?», i ragazzi cominciano a esprimere ognuno le proprie idee, poi interviene l’esperienza. Se fra tutti gli oggetti c’è un elastico, tutti dicono che galleggia perché l’elastico è leggero… e l’elastico va a fondo; se metto una mela, tutti dicono che va a fondo perché è pesante, invece galleggia, ma se la mela è bacata non galleggia più e va a fondo… per quale motivo? Ossia, non c’è una verità assoluta, ma ci sono tanti aspetti della conoscenza per cui è sempre necessario porci delle domande e riflettere sulla realtà che ci sta intorno.

È quello che ho imparato e che ho insegnato facendo scuola, a partire dagli anni Cinquanta e proseguendo finché non sono andato in pensione. La scuola funzionava perché i bambini erano contenti, e questa per me era la cosa essenziale.

La sua didattica, quindi, è sempre stata caratterizzata da un atteggiamento di ricerca e di sperimentazione, ma qual è stato il suo rapporto con i programmi scolastici?

Dei programmi me ne sono sempre un po’ infischiato. I programmi dovrebbero dare l’indicazione degli obiettivi, dopo di che, come arrivarci è compito dell’insegnante. Non credo che esista un metodo perfetto; esistono tante metodologie, che nascono da esperienze di altri e che uno adatta alla propria situazione, ai propri bambini. Se io dovessi tornare a scuola oggi non rifarei quello che ho fatto fino all’ultimo giorno di scuola, perché i bambini cambiano e cambiamo anche noi. Se penso a quei bambini che ho avuto trent’anni fa e a quante cose non sapevo…. Per questo è importante che ci sia una preparazione universitaria per l’insegnante di scuola elementare; l’istituto magistrale sarebbe meglio chiuderlo perché non dà più quello che dovrebbe dare.

Il suo lavoro di insegnante, di educatore, si è espresso in diversi contesti: il carcere minorile, la scuola elementare, di cui abbiamo appena parlato, la pubblicazione di tanti libri sia didattici che di narrativa per ragazzi e poi la televisione, all’inizio degli anni Sessanta, col programma per adulti analfabeti Non è mai troppo tardi. Ci può raccontare come è arrivato alla televisione?

Nel 1951 vinsi un premio radiofonico per un racconto per ragazzi che avevo presentato alla radio³; da allora ebbi una collaborazione costante con quella che era la “radio per le scuole”, dove parlavo di vari argomenti: libri per ragazzi, scienze ecc.

Nel 1960 arriva il mio incontro con la televisione, incontro che io non ho mai cercato perché, in realtà, io non avevo nessuna voglia di andare in televisione; fra l’altro non avevo neppure la televisione a casa mia e nemmeno sapevo che esistevano certi programmi educativi. Le cose andarono così: dal mio direttore didattico fui mandato a fare un provino alla fine di ottobre. Il ministero della Pubblica Istruzione aveva programmato con la RAI che il 15 novembre doveva partire la nuova trasmissione (Non è mai troppo tardi) e fino a quel momento non era ancora stato trovato il maestro che la doveva condurre. Poi ho saputo che dal mese di marzo stavano cercando, con il solito sistema all’italiana, chiamando all’inizio i più raccomandati, e poi via via…

Io fui chiamato perché, alla fine, il Provveditore agli Studi di Roma chiese a ogni scuola di mandare due insegnanti per fare questa prova. Io ero insieme a un mio collega, eravamo amici e l’idea di andare alla televisione ci piaceva perché… volevamo vedere le ballerine. Invece le ballerine non c’erano, c’era solo una schiera di maestri elementari come noi, ognuno dei quali doveva fare una lezione di 20 minuti. Ci hanno comunicato a che ora dovevamo presentarci e ci hanno dato una lezione già scritta sulla lettera “O”.

All’inizio ho guardato un po’ le prove degli altri, per vedere come facevano: era sempre la stessa cosa, ogni candidato stava seduto o in piedi e parlava, parlava per 20 minuti, ma io non sentivo quello che diceva. Sentivo quello che dicevano i cameraman, tutti avvelenati dopo mesi di “lettera O” e dicevano: «Questi maestri non capiscono niente ecc. ecc.».

Confesso che ero abbastanza nervoso; alle 11 di sera mi chiamarono a fare la prova, aspettavo dalle 2 del pomeriggio, io ho detto: «Sentite, posso fare come mi pare, o devo recitare la cosa che è stampata?». Non avevo mai visto uno studio televisivo prima d’allora e ignoravo che esistesse una sala di regia fuori da quello spazio, pensavo che tutto si svolgesse fra le persone che erano lì presenti; fra queste c’era uno in camice bianco che ha sentito qualcosa attraverso la cuffia e mi ha detto: «Può fare di testa sua». Non sapevo che in sala di regia c’era il direttore generale, gli ispettori generali dei ministeri interessati, c’era l’ispettore centrale che poi mi avrebbe seguito per tutti gli otto anni di esperienza, c’era l’amministratore delegato Marcello Rodinò con tutti i capi della televisione.

Il mio inizio fu: «Chi ha scritto ‘sta lezione non capisce niente», l’avevano scritta loro. Ho strappato il testo che mi avevano dato e ho chiesto dei fogli di carta da pacchi; mandarono qualcuno a prenderli e io ne attaccai alcuni al muro, quindi presi un pezzo di gesso e cominciai a disegnare.

Qual era il problema? Che nessuno aveva pensato che la televisione è fatta di immagini in movimento, per cui, se io sto fermo 20 minuti a parlare addormento tutti. La mia soluzione fu di disegnare: mi bastava schizzare qualcosa, meglio se incomprensibile all’inizio per cui, chi stava a guardare era incuriosito dal disegno che via via prendeva forma e nel frattempo seguiva il mio discorso.

Ad un certo punto ho sentito una voce provenire chissà da dove che ha interrotto la mia lezione dicendo: «Abbiamo trovato il maestro, mandate via tutti gli altri», e così è iniziata la mia avventura televisiva.

Dopo circa 10 giorni ho fatto la prima lezione in diretta, ma recalcitrando, perché mi avevano tolto dalle mie esperienze con i ragazzi con i quali stavo facendo delle cose interessanti: avevo letto Vygotskij e stavo lavorando al rapporto fra esperienze, conoscenza e linguaggio, ma avevo capito l’importanza dell’emotività nel processo di apprendimento. Mi concessero di continuare a far scuola ancora per un mese e mezzo.

Successivamente, fui “comandato” al ministero della Pubblica Istruzione e di lì alla RAI; tutte le mattine dovevo andare dal direttore generale, firmare davanti a lui, dirgli che cosa avrei fatto la sera durante la lezione…

I primi giorni dicevo che non lo sapevo che cosa avrei fatto, forse un po’ anche per senso di ribellione, ma lui era una persona molto intelligente e mi capiva. Così si aprì un dialogo e, per esempio, mi diceva: «Parliamo un po’ insieme, vediamo la differenza fra “gli” di agli e “gli” di glicerina: come pensa di spiegarla al pubblico?». Ponendomi questi problemi, incuriosiva anche me perché, comunque, una soluzione la dovevo trovare. Il nostro rapporto è andato avanti così per otto anni, ovviamente non tutte le mattine perché lui fortunatamente aveva anche altro da fare, ma ricordo che erano incontri piacevoli e anch’io imparavo molte cose da lui.

Possiamo dire quindi che la televisione ha costituito per lei una nuova sfida nella ricerca didattica: comunicare, insegnare attraverso la TV, anziché nel rapporto diretto con i propri allievi, rappresenta un salto molto forte da questo punto di vista. La sfida era duplice: da una parte la novità del medium, dall’altra dei soggetti a cui si rivolgeva, adulti analfabeti anziché bambini.

Il metodo è completamente diverso. In classe l’insegnante ha il tempo e la possibilità di conoscere i propri allievi e quello che sanno; in televisione tutto questo non è possibile, e poi si parla con adulti, che è ben diverso dal rivolgersi a dei bambini.

Sono partito da questo principio, che l’adulto, anche se analfabeta, non è deficiente; è una persona che vive insieme agli altri, ha i suoi problemi e cerca di risolverli, per cui io gli devo parlare come parlo con qualsiasi altra persona. Lui non conosce certi strumenti culturali e io cerco di dargli una mano usando quegli strumenti in modo che anche lui impari ad usarli. Tutto qui.

Voglio precisare, però, che il merito di essere arrivati a circa un milione e mezzo di persone che hanno sostenuto una prova finale in cui si dichiarava che avevano imparato a leggere e scrivere non è tutto mio. Io sono stato il pupazzo televisivo, quello che stuzzicava l’interesse della gente; il merito reale è dei 2.000 maestri mandati dallo Stato nei vari posti d’ascolto e che, dopo le trasmissioni televisive, dovevano seguire le persone nei loro effettivi apprendimenti.

Veniamo allora al progetto pedagogico più complessivo di Non è mai troppo tardi, di cui evidentemente il programma televisivo era solo una parte…

Chi aveva pensato di usare la televisione come mezzo per vincere l’analfabetismo, se fosse stato possibile, era stato il direttore generale della Pubblica Istruzione Nazareno Padellaro; fu sua anche l’idea del titolo Non è mai troppo tardi, che credo avesse preso da un romanzo francese…

Anni prima lui si era molto impegnato nella lotta contro l’analfabetismo, ma con scarsi risultati, sia perché gli insegnanti coinvolti in queste esperienze itineranti dovevano andare a fare scuola direttamente nelle famiglie, erano giovanissimi e inesperti in un compito nel quale trovavano molte resistenze; sia perché gli adulti analfabeti non erano disponibili ad andare a scuola, si vergognavano…

Padellaro ebbe quindi l’idea di usare un mezzo nuovo come la televisione, e per questo fece un accordo con Rodinò per un progetto comune fra ministero della Pubblica Istruzione e RAI.

Vennero organizzati 2.000 posti di ascolto; in ognuno di questi c’era un insegnante e un apparecchio televisivo. Gli adulti analfabeti non erano obbligati a frequentare, ma c’era la televisione, che allora rappresentava un’attrattiva molto forte, e si poteva restare anche con la famiglia a vedere altri programmi. In quei luoghi, la gente andava soprattutto col proposito di vedere la TV non di andare a scuola, poi, chi voleva, poteva fermarsi anche per imparare.

Ma il fenomeno più interessante fu la nascita di moltissimi posti d’ascolto volontari; venivano allestiti nelle parrocchie, nelle sedi dei partiti, nel bar del paese ed erano frequentati da persone che chiamavano altre persone: «Tu non sai scrivere? Vieni qui, facciamolo insieme, vedrai che è facile… ». Nessuno ha mai saputo calcolare quante fossero queste iniziative.

Ancora oggi, nel 1997, mi capita di ricevere messaggi o di incontrare qualcuno, che può avere 40 o 50 anni, che mi dice di avere imparato a leggere e scrivere con la televisione, quando era bambino e non andava ancora a scuola o aveva appena iniziato. Questo è un altro aspetto significativo di quel programma, che coinvolgeva anche molti bambini e ragazzi.

Forse Non è mai troppo tardi è stato il primo programma educativo di successo della nostra televisione, nel senso che è riuscito a coinvolgere un pubblico che andava ben al di là di quello per cui era stato pensato.

Il trucco era nel metodo con cui il programma veniva realizzato: da una parte c’era il disegno che attirava indubbiamente l’attenzione; io preparavo i disegni a casa la mattina perché, se volevo disegnare un pupazzetto, dovevo fare in modo di non partire dalla testa, altrimenti la gente avrebbe capito subito. Per mantenere viva l’attenzione, come ho già detto, era necessario che non si capisse subito che cosa sarebbe apparso nel disegno su quel foglio di carta.

Dall’altra c’era ogni tanto l’intervento di un attore popolare che raccontava una piccola storia o faceva una scenetta; per esempio, se presentavo la lettera “F” veniva Aldo Fabrizi. Devo dire che molte volte questi attori venivano gratuitamente, perché l’analfabetismo era sentito come un problema nazionale e ognuno dava volentieri un piccolo contributo, che comunque non doveva durare più di due o tre minuti.

Ogni tanto, a seconda degli argomenti, presentavo qualche pezzetto filmato o delle fotografie, materiali che sceglievo io e che alternavo nel corso del programma cercando di non avere mai una caduta di attenzione.

All’inizio nessuno credeva, e nemmeno io, al successo del programma, che invece fu notevole e così io rifeci il primo corso l’anno successivo, mentre ad un altro maestro che aveva fatto il provino insieme a me fu affidato il secondo corso che andava in onda il martedì, giovedì e sabato. L’esperienza con questo insegnante non andò bene; fecero un tentativo per alcune puntate di sostituirlo con un altro, ma non funzionò di nuovo; così, il terzo anno, a me fu affidato il secondo corso e vennero trasmesse le puntate del primo corso registrate l’anno precedente. Il quarto anno, io feci il primo corso e il secondo era la registrazione dell’anno precedente, e così si andò avanti di anno in anno per otto anni: io facevo un corso in diretta, il primo o il secondo, e l’altro era quello registrato l’anno precedente.

Potrebbe dirci anche qual era la struttura organizzativa del programma, i suoi aspetti istituzionali; la RAI era una struttura abbastanza rigida in cui non mancavano le forme di controllo…

La direttrice dei corsi di Non è mai troppo tardi era Maria Grazia Puglisi, che coordinava già Telescuola, i registi sono stati diversi, poi c’erano un funzionario e una segretaria che collaboravano alla buona riuscita del programma, procurando i materiali che mi servivano e così via.

Con la direttrice e la regista ci incontravamo una volta la settimana per fare la programmazione: io dicevo su quali argomenti avrei lavorato e loro mi proponevano le loro idee, un ospite da invitare… se mi andava bene dicevo di sì, altrimenti dicevo di no. Non sono mai stato obbligato a fare una scelta che non condividevo, a parte una volta: fu quando uccisero Kennedy e mi obbligarono a non parlarne perché, mi fu detto, «se lei ne parla potrebbe dare fastidio a qualcuno, sul piano diplomatico…» . E io, obbediente, ne parlai subito la sera stessa. Il fatto era accaduto poco prima della trasmissione e io ho sempre pensato che a scuola si deve parlare di quello che sta accadendo nel mondo.

È importante dire che il programma, per tutti gli otto anni in cui è andato in onda, era in diretta. Il primo corso andò in onda il lunedì, il mercoledì e il venerdì dalle 19 alle 19,30, oppure dalle 18,45 alle 19,15 durante il periodo invernale perché la gente, soprattutto i contadini e gli operai, rientravano a casa un po’ prima.

Abbiamo visto come è nato il programma e come si è sviluppato, è importante capire anche come è finito, quali sono state le ragioni o le condizioni che hanno portato alla sua chiusura.

Alla metà degli anni Sessanta ci fu una certa trasformazione in RAI, che si avvertì anche nel settore in cui io lavoravo. Dopo cinque anni, la Puglisi rimase direttrice dei corsi, ma cambiò il direttore di Telescuola e si aggiunse un vicedirettore, così avevo tre capi. Poi cambiarono anche i funzionari: da uno diventarono quattro, finché si arrivò ad una struttura burocratica tale per cui qualcuno doveva pur dimostrare di fare qualcosa, e allora cominciarono a dirmi: «Maestro, lei deve scrivere la lezione perché io la devo controllare prima, poi lei la ripete…».

Capivo che si trattava di una giustificazione burocratica, per cui io risposi: «Posso anche scrivere la lezione, voi l’approvate, ma poi io faccio come mi pare, vado a ruota libera».

«No, allora lei la deve registrare», fu la loro replica. Io non accettai; sapevo cosa voleva dire fare il programma registrato anziché in diretta, voleva dire stare ore e ore dentro lo studio televisivo a ripetere più volte la stessa cosa, non faceva per me.

Questo fu uno dei motivi che portarono alla fine del programma, ma non fu l’unico. Dopo otto anni, eravamo nel 1968, Non è mai troppo tardi aveva già svolto la sua funzione; a quel punto o si rinnovava o si chiudeva. Oltre al primo e secondo corso, io avevo fatto anche il terzo, che non era più di alfabetizzazione in senso stretto, ma serviva per allargare un po’ la cultura di chi era già alfabetizzato: se c’era un terremoto o un’eruzione vulcanica in qualche parte del mondo, io parlavo di terremoti e di vulcani, facevo un po’ di storia, di geografia, per dare a quelle persone il gusto di voler scoprire e imparare anche al di fuori dell’insegnamento scolastico. Era inutile ormai fare l’ABC: il passaggio doveva essere verso un corso di educazione permanente. Io feci una proposta alla RAI e mi dissero che ci avrebbero pensato. Infatti, realizzarono Sapere, ma non capirono che questo era a un livello culturale troppo alto per il tipo di pubblico che io intendevo.

Poi ci fu un ulteriore problema, di tipo economico, perché la RAI aveva venduto l’intero programma ad altri paesi incassando qualcosa come 70 miliardi. Il ministero della Pubblica Istruzione voleva una parte di questa somma, sostenendo che, se la RAI aveva materialmente prodotto Non è mai troppo tardi, l’idea del programma e l’insegnante che lo conduceva erano del ministero. Su questo non si misero d’accordo e alla fine la collaborazione si interruppe.

Per rimanere sulla questione economica, devo dire che io non sono mai stato pagato dalla RAI; ero un insegnante statale distaccato per fare questo lavoro e continuavo a percepire il mio stipendio di maestro elementare. Dalla RAI ricevevo 2.000 lire a trasmissione come “rimborso camicia”, perché il gessetto nero che usavo per fare i disegni era molto grasso per cui, oltre ad avere sempre le mani sporche, si attaccava ai polsini della camicia ed era difficile da togliere; quindi dovevo comprarmi spesso delle camicie nuove.

Lei ha detto che la RAI vendette il programma all’estero; quindi il successo di Non è mai troppo tardi si diffuse anche fuori dall’Italia, ci può spiegare meglio in quali termini ciò avvenne?

Ricordo che dopo i primi due anni, in sala regia c’erano spesso dirigenti o funzionari di reti televisive o di ministeri dell’educazione di altri paesi, non solo europei, che venivano a conoscere il nostro programma per la lotta contro l’analfabetismo. Per esempio, il direttore generale dell’educazione dell’Arabia Saudita stette sei mesi a seguire ogni puntata del programma.

Nel 1965 Non è mai troppo tardi vinse il premio internazionale Tokio come migliore trasmissione che aveva contribuito alla lotta contro l’analfabetismo, dopo che l’UNESCO nel 1961 lo aveva considerato uno dei programmi meglio riusciti per diffondere l’alfabetizzazione⁴. Vari paesi lo acquistarono prendendone lo stile, il metodo e adattandoli alla loro realtà. Fra questi l’Argentina, dove poi mi chiamarono per aiutarli a costruire un programma analogo, ma utilizzando la radio.

Fu una sfida interessante quella, perché la radio arrivava ovunque, ma non aveva un elemento fondamentale, cioè l’immagine. Allora io proposi di usare il libro illustrato come strumento di supporto al programma radiofonico, facendo in modo, praticamente, che il libro diventasse il video rispetto alla voce radiofonica che guidava l’allievo dicendo, per esempio: «Apri la prima pagina. Vedi quel segno tondo che sta in alto? Si chiama 0…», e così via. Fui contento di questo lavoro, che diede ottimi risultati, tant’è vero che l’ONU premiò il governo argentino per questo programma ed io stesso ricevetti dagli argentini dei segni di riconoscimento: per esempio, quando venne in visita in Italia il presidente dell’Argentina, nel 1989, fui invitato insieme ad altre personalità, e mi ringraziò.

Per tornare a Non è mai troppo tardi, io poi ho saputo che il programma è stato oggetto di studi e di analisi in altri paesi: Stati Uniti, Francia… Non mi risulta che finora in Italia ci sia stata un’attenzione particolare dal punto di vista culturale e didattico a quell’esperienza.

Non è mai troppo tardi è stato un segno tangibile, in un certo periodo della nostra storia recente, di impegno della RAI come servizio pubblico in campo educativo. Questo impegno poi è continuato, ma in modo diverso, anche perché la televisione è cambiata…

Ci si è preoccupati di far vedere che si era sapienti. Per esempio, quando si facevano i corsi di Sapere o L’approdo, il linguaggio era quello delle élite, per chi era della “ditta”, chi ne era fuori non capiva quei discorsi. Anche oggi succede di accendere la televisione e di trovare un bravissimo filosofo che parla, per esempio, del concetto di libertà negli ultimi cento anni…, ma a chi si rivolge? Chi è il pubblico che lo ascolta?

Poi è arrivato Piero Angela e la gente si ferma a guardare i suoi programmi, perché lì c’è una tensione cognitiva che mette a proprio agio il pubblico e lo spinge alla curiosità. Questa però non è ancora “cultura”, è informazione; perché diventi cultura è necessario che la persona approfondisca, rielabori certi concetti… Questa informazione è comunque importantissima: se usa il linguaggio giusto, mi aiuta almeno a desiderare di conoscere un po’ di più. Ricordo che nel 1965 Piero Angela venne a Non è mai troppo tardi ad annunciare un programma sugli animali che sarebbe andato in onda in ottobre di quell’anno.

È evidente che da allora a oggi la televisione è cambiata moltissimo; con l’avvento di altre emittenti è progressivamente caduto l’aspetto del “servizio” e la Rai si è adeguata a un abbassamento del livello generale, rinunciando anche a quel carattere sperimentale che era uno dei suoi aspetti più significativi. Quello che all’inizio era un impegno di servizio pubblico è diventato sempre più un impegno di divertimento pubblico.

E “il maestro Manzi”, dopo Non è mai troppo tardi, cosa fece? Ritornò a scuola? Mi pare che ci furono anche altri programmi televisivi condotti da lei…

Alla fine, io fui contentissimo di ritornare a scuola e di riprendere il mio lavoro dove lo avevo lasciato otto anni prima. Ho continuato a fare il maestro elementare fino al 1988, quando sono andato in pensione. Credo siano stati gli anni migliori del mio lavoro, perché durante il periodo televisivo ho avuto la possibilità di ripensare a tutte le mie esperienze, di approfondire e studiare quei temi che più mi stavano a cuore, insomma, di fare quello che il lavoro scolastico di tutti i giorni non permette di fare. Questo è anche uno dei problemi del mestiere di insegnante: bisognerebbe avere ogni tanto un anno sabbatico per meditare sul proprio lavoro, per studiare veramente…

Poi la RAI mi ha chiamato per fare altre cose: per radio ho fatto delle trasmissioni giornaliere rivolte ai giovani in cui parlavo di vari problemi, ricordo che c’era la guerra nel Vietnam e feci venire due vietnamiti a parlare della loro realtà. Era anche un programma di musica, di poesia⁵.

Tornai in televisione per il DSE (Dipartimento Scuola Educazione) dopo il 1970 con diversi programmi, fra cui un ciclo di sette trasmissioni dove coinvolgevo genitori e ragazzi per affrontare diversi problemi educativi e relazionali che si presentano all’interno della famiglia, nel rapporto fra genitori e figli. Il titolo era Non vivere copia, nel senso di “cerca di essere te stesso”, non adattarti a essere semplicemente come gli altri, o come gli altri ti vogliono. Ricordo, fra l’altro, che la presentatrice diceva: «Non vivere, copia!» dando così un significato completamente diverso al titolo.

Poi ho fatto Educare a pensare: 13 puntate rivolte agli insegnanti di scuola elementare e che avevano lo scopo di rinnovare la didattica. Erano trasmissioni dove, con un gruppo di bambini, affrontavo determinati problemi e alla fine riflettevo sull’esperienza fatta. Subito dopo mi fecero fare un’altra serie di 13 trasmissioni intitolata Fare e disfare, rivolta a insegnanti di scuola materna.

Devo precisare che queste 26 puntate le ho fatte in 15 giorni, registrandole, perché ormai la RAI registrava tutto… Siccome le registrazioni erano date in appalto, io avevo costruito un certo rapporto con la troupe a cui avevo detto: «Si fa come se fosse in presa diretta, perché io non ripeto». Poteva capitare che finisse la bobina, ma io avevo imparato a calcolare abbastanza bene i tempi.

Nel ’90 fui chiamato da uno dei dirigenti di RAI 2 per fare un programma rivolto agli extracomunitari, per insegnare loro a familiarizzare con la lingua italiana⁶. Io dissi che non serviva mandare in televisione un programma così, sarebbe stato meglio registrare le cassette e inviarle nei luoghi di ritrovo degli extracomunitari, dove loro potevano guardarle quando volevano. La proposta non passò, il programma doveva essere fatto dentro un certo contenitore e andare in onda tutti i giorni all’una. Un orario assurdo, perché a quell’ora gli extracomunitari non stavano certo davanti alla televisione. Indipendentemente dalla qualità del programma, credo sia stata un’esperienza inutile, che è servita alla RAI come giustificazione, per dimostrare che, come servizio pubblico, si è impegnata verso gli extracomunitari. Penso che i vu cumprà l’italiano lo abbiano imparato per strada, non da quel programma.

Gli extracomunitari ci portano al problema del terzo mondo e alla grande piaga dell’analfabetismo presente in quei paesi. Lei prima ha accennato a una esperienza svolta in Argentina, ma non fu quella l’unica volta in cui lavorò in Sudamerica…

Sono stato spesso in Sudamerica. Vi andai per la prima volta nel 1955 e ’56 per studiare un tipo di formiche nella foresta amazzonica, ma scoprii altre cose che per me valevano molto di più. C’erano i contadini che non potevano iscriversi ai sindacati, perché non sapevano leggere e scrivere e nessuno glielo insegnava; chi cercava di farlo rischiava di essere picchiato e imprigionato, oppure ucciso.

Siccome si trattava di una cosa proibita, mi attirò; così io andavo ogni anno, nel mese di luglio o di agosto, dipendeva da quando c’era un posto libero sull’Alitalia… Avevo parlato con il direttore dell’Alitalia, che mi chiamava quando c’era questa possibilità e mi faceva pagare solo le spese dell’assicurazione. Con lo stipendio di maestro, se dovevo spendere un milione per il viaggio… E così le mie partenze e i miei ritorni erano legati a questa possibilità. A volte restavo 20 giorni, altre volte 40; andavo sull’altopiano andino, in Perù, facevo scuola a una quindicina di Indio, insegnavo l’alfabeto, a leggere e scrivere in spagnolo, arrangiandomi come potevo; poi loro insegnavano ad altri.

Questa esperienza è andata avanti per circa vent’anni, fino al 1977. Dopo i primi anni, però, non sono andato più solo: attraverso il programma radiofonico di cui prima ho parlato, molti ragazzi, studenti universitari specialmente di Roma, ma anche di Bologna, Torino, mi chiedevano se potevo portarli con me. Non tutti insegnavano a leggere e scrivere, se c’era uno studente di medicina, insegnava le norme igieniche, il pronto soccorso… Ognuno dava quel che poteva.

Poi cominciarono ad accusarci di essere guevaristi, oppure marxisti o un qualunque accidente che finiva in “isti”, per cui iniziarono ad arrestare dei gruppetti e io non me la sentivo più di rischiare la vita di questi ragazzi. Fu allora che intervennero i Salesiani, quelli del Pontificio Ateneo Salesiano di Roma; un certo padre Grassi, mi sembra, che prese in mano l’iniziativa cominciando dal Brasile; in Perù e Bolivia, dove la situazione politica si era fatta pesante, non era possibile tornare. Alcuni Stati non mi davano più il visto: non ero una persona gradita.

Durante quei viaggi, per esempio, ho conosciuto i sacerdoti sudamericani che aderivano alla teologia della liberazione. Molte volte ne abbiamo discusso a Lima, a Quito: si voleva capire se la Chiesa doveva servire l’uomo o il potere.

Dal racconto delle sue esperienze, emerge che lei ha vissuto il lavoro di insegnante, nei diversi campi in cui lo ha svolto, con una disponibilità continua a “mettersi in gioco” sul piano professionale e personale, correndo per questo anche dei rischi…

Io sono stato forse l’unico insegnante che è andato sotto il Consiglio di disciplina per otto volte. La prima volta perché non davo i voti ai ragazzi sulle pagelle. Gli ispettori centrali del ministero mi accusarono di omissione di atti di ufficio e io chiesi se il mio lavoro era di aiutare il bambino o di aiutare lo Stato a fare gli atti d’ufficio. Mi risposero che dovevo fare l’uno e l’altro, ma io parto dal principio che aiuto lo Stato aiutando il bambino.

Posi il problema in questi termini: ho due bambini, uno fa il dettato senza errori, cosa gli devo dare in base alla vostra valutazione decimale? Ovviamente gli devo dare dieci. Un altro bambino fa trenta errori: che voto gli devo dare? Sotto-zero? Normalmente gli si dà quattro. Dopo 15 giorni, il primo, che non aveva fatto errori, fa due errori; gli do otto che è sempre un bel voto, però, lui è andato avanti o è andato indietro?

Il secondo bambino, che aveva fatto 30 errori, la seconda volta ne fa 22, ma secondo quel criterio il suo voto rimane sotto-zero. Ora, a quello che ha preso otto non posso dirgli «Guarda che sei andato male…» , mentre al bambino che è passato da 30 errori a 22 gli devo dire «Bravo!», ma in realtà non glielo posso dire perché, in base al voto, lui rimane un cretino. Ma io sono sicuro che se gli dico «Bravo!», la volta successiva di errori ne farà 15. E ho concluso dicendo: «Adesso decidete voi se devo dare il voto, oppure se devo dire a un ragazzino che deve crepare ignorante come è».

Mi dissero: «Può andare, maestro», e non sono stato punito.

L’ultima volta mi è andata male, sempre a proposito di valutazione. C’erano le schede da fare e io avevo in classe un bambino autistico. Devo precisare che, quando arrivò la richiesta se si volevano accogliere bambini handicappati nella scuola, io mi rifiutai. La ragione fu che non eravamo preparati ad accogliere bambini handicappati e nessuno ci garantiva l’aiuto e i supporti necessari. Poi accadde che, insieme a quel bambino autistico, arrivarono tre casi di bambini sui quali la seconda clinica di neuropsichiatria dell’Università di Roma aveva dichiarato ufficialmente che «non possono frequentare la scuola perché sono pericolosi per sé e per gli altri». Il direttore della scuola, che era anche mio amico, mi disse: «Alberto, ci vuoi provare tu?».

«Va bene, ci provo», fu la mia risposta, io che non volevo gli handicappati… Quello era il primo anno in cui si fecero gli inserimenti nella scuola. Poi ne arrivarono altri 7, insomma: su una classe di 26 ragazzi, 15 avevano dei seri problemi e 4 di questi erano davvero gravi.

Quando arrivò la novità delle schede, io dovevo dare i giudizi su questi quattro ragazzi e dissi al direttore che mi rifiutavo di farlo. Alla fine c’è stata una denuncia nei miei confronti. L’anno successivo feci lo stesso, ma scrissi al ministro che io mi rifiutavo di fare le schede su quei ragazzi non perché ero pigro, ma perché come insegnante non potevo dare certe definizioni o fare una valutazione, come mi chiedeva la scheda, su dei ragazzi difficili come quelli che io avevo. Gli dicevo che se voleva aiutarmi lui a fare quelle schede, io le avrei fatte e poi gli ricordavo che c’era stato qualcuno che aveva detto che non è l’uomo fatto per la legge, ma è la legge fatta per l’uomo: lei mi spieghi se io devo stare al servizio dei ragazzi o a servizio della scheda.

Punito. Punito perché il ricorso non era giuridicamente esatto: 4 mesi senza stipendio⁷. Questo è lo Stato. Oggi, quei tre ragazzi che erano stati dichiarati «pericolosi…» studiano tutti e tre ingegneria: uno fa ingegneria informatica e ho saputo che ha vinto una borsa di studio per andate in Svizzera; gli altri due fanno ingegneria chimica e ingegneria aeronautica. Questi tre erano quelli che non potevano andare a scuola, ma se sono arrivati all’università credo che, non tanto io, ma la scuola abbia fatto qualcosa per loro…

L’unico su cui non sono riuscito è quello autistico, ma la sua situazione era obiettivamente diversa dalle altre; però ero riuscito a farlo parlare, a interessarlo… Quando è entrato nella scuola media me l’hanno fregato; lo lasciavano nel corridoio e lui perse anche quel poco che aveva conquistato.

L’anno successivo ero da capo con le schede; le dovevo fare e non le ho fatte, però mi feci fare un timbro che riportava questa scritta: «Fa quel che può. Quel che non può, non fa». Un giudizio estremamente preciso, scientificamente esatto; nessuno avrebbe potuto dire che non lo era. Fui denunciato alla Procura della Repubblica e il giudice mi disse: «Maestro, ma lei questi giudizi li scrive col timbro… Così ci prende in giro!». Allora l’anno successivo scrissi a mano, ma sempre lo stesso giudizio. La cosa è finita lì.

Poi, che cosa è successo? Che le schede di valutazione sono cambiate e ancora oggi stanno cambiando, perché ci si accorge che questo sistema non funziona e non si è ancora trovata la soluzione al problema di come valutare nella scuola.

Nella mia lettera al ministro, io gli spiegavo per quale motivo non volevo valutare alla fine dell’anno: perché la valutazione è sempre legata a una situazione particolare dell’alunno, a come egli è in quel momento. Il giorno dopo potrei fare una valutazione diversa…

Alla fine dell’anno basterebbe dire per ogni ragazzo se è pronto per passare alla classe superiore. Tutte le altre valutazioni sono troppo soggettive e ambigue, bisognerebbe mettersi d’accordo sul linguaggio e sulle definizioni che si danno, perché quando io scrivo un certo giudizio, colui che lo leggerà non è detto che gli dia lo stesso significato che io intendevo.

Se si è profondamente onesti come insegnanti, bisogna riconoscere che sono i bambini con problemi che hanno mandato in crisi il sistema di valutazione, e oggi i bambini di problemi ne hanno molti di più di quelli che avevano una volta. Forse eravamo stupidi noi che non li capivamo, o è la scuola che crea problemi ai bambini.

Lei ha fatto parte anche del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione; in quella sede ha avuto la possibilità di esprimere e di discutere le sue opinioni sulla scuola?

Ho fatto parte per 5 anni del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, poi me ne sono andato. Era il periodo in cui si discuteva dei nuovi programmi per la scuola elementare; su 74 persone, mi ricordo che soltanto in 4 eravamo insegnanti che lavoravano effettivamente nella scuola. Se dovessi dire a cosa serve il CSPI, direi che serve a giocare al parlamentino della scuola; la maggior parte delle persone che era li aveva una certa appartenenza politica: associazioni, sindacati, partiti… Adesso potrebbero essere cambiate le cose, il mio è un discorso riferito a quegli anni; ma come in tutte le esperienze, anche qui c’è stato qualcosa di positivo.

Le premesse pedagogiche per i nuovi programmi andavano bene, non ero d’accordo quando si passò alle indicazioni didattiche e quello che ne venne fuori fu un’idea della scuola che accontentava un po’ tutti: sia il maestro che vuole fare della scuola la scuola del pensiero, sia quello che facendo vedere ai bambini una serie di cartoline illustrate è convinto di spiegare la geografia. Quando dissi le mie opinioni al ministro Falcucci, mi rispose: «Ma lei con chi sta mescolato insieme?».

«A me non mi hanno mescolato mai, io sono solo».

«Ah! Ma lei è un cane sciolto! Allora può abbaiare quanto vuole».


1
Il testo dell’intervista è stato visto dalla moglie di Alberto Manzi. Le note a piè pagina sono del curatore.

2
Nel 1948 riceve il premio Collodi e due anni dopo Grogh, storia di un castoro viene pubblicato da Bompiani. Tradotto in 28 lingue, la RAI ne fa una riduzione radiofonica nel 1953.

3
Si tratta del premio “I racconti del maestro”, ricevuto dalla RAI per il racconto radiofonico Vecchio orso.

4
Non è mai troppo tardi riceve inoltre il “Premio Antenna d’Oro” nel 1962 e il “Premio Presidenza del Consiglio” nel 1963.

5
Come autore e presentatore, realizza per la RAI due programmi radiofonici: Il ponte d’oro (1968-69) e Il mondo è la mia patria (1969-70).

6
Il programma, in 60 puntate, si chiamava Insieme e andò in onda nel 1992.

7
Il decreto di sospensione venne emanato nel 1981 dal Provveditorato agli Studi di Roma e si riferiva agli anni scolastici 1978-79 e 1979-80.