Strappare il copione – Il “metodo non metodo” del maestro Alberto Manzi

Nell’ambito degli eventi per il Centenario dalla nascita del maestro Alberto Manzi, venerdì 27 settembre 2024 si è svolto presso l’Università di Verona il seminario dottorale dal titolo: “Ogni giorno possiamo trasformare il mondo”. L’educazione del maestro Alberto Manzi dall’infanzia all’età adulta. L’incontro è stato organizzato dalla Scuola di dottorato in Scienze Umanistiche con il patrocinio del Centro Alberto Manzi. Come dottoranda in Pedagogia, che sta concludendo il suo percorso di ricerca incentrato sull’educazione popolare del maestro Manzi, ho introdotto l’incontro, moderato dalle professoresse Marcella Milana e Rosanna Cima.

Il Seminario ha visto la partecipazione di quattro relatori che, con differenti retroterra di ricerca, insegnamento ed esperienze legate al mondo dell’educazione, hanno creato uno spazio di approfondimento e confronto ricco e stimolante.

Durante la prima parte dell’incontro, sono intervenuti la dottoressa Patrizia D’Antonio e il dottor Paolo Mazzoli.

La prima, insegnante e ricercatrice, ha intrapreso la professione educativa anche grazie al maestro Manzi, di cui era grande amica e con cui, negli anni, ha avuto modo di condividere molte imprese, dubbi e idee sulla professione. D’Antonio ha di recente pubblicato il libro «Ogni altro sono io».  Alberto Manzi: maestro e scrittore umanista (Castelvecchi, 2024), frutto di una mirabile ricerca dottorale presso la Université de Dijon e l’Università degli studi di Milano. Con lei, abbiamo potuto approfondire l’importanza che rivestono i romanzi nella produzione di Manzi. Il maestro ha infatti scelto di non scrivere un trattato di pedagogia per spiegare il suo metodo, perché temeva che, se così avesse fatto, questo sarebbe stato riapplicato acriticamente. Questa scelta, unita al fatto che non amava parlare di sé e delle sue esperienze educative in occasione, ad esempio, di convegni ed interviste, conferisce una grande importanza ai suoi romanzi, come fonte di conoscenza sulle sue idee in ambito educativo e riflesso della sua più ampia visione del mondo. D’altronde, come la dottoressa ha evidenziato, il fatto di conferire ai romanzi il ruolo di messaggeri del suo lascito culturale, è stata una scelta esplicita del maestro, che ha affermato:

«Dovrei parlare di me e questo mi mette in imbarazzo. Che dire? Che scrivo libri? Che insegno? Che faccio questo e quest’altro?… Ha forse significato la mia storia? Forse lo hanno più i personaggi dei miei racconti: Grogh, Orzowei, Pedro, El loco… e loro parlano dai loro libri».

Paolo Mazzoli, che è stato preside, insegnante di fisica e matematica, direttore di INVALSI ed è esperto di politiche educative, fin dall’inizio della sua carriera è stato uno stretto collaboratore di Manzi, con il quale ha svolto una fervida ricerca educativa nella scuola primaria. Grazie a lui, siamo potuti “entrare” in classe assieme al maestro, evento più unico che raro dal momento che, come Mazzoli ha evidenziato: «Siamo in pochi ad averlo visto in aula». Per raccontare e analizzare la pedagogia del suo collega, Mazzoli si è avvalso anche di una interessantissima trasmissione realizzata dal maestro Manzi per la RAI nel 1986: Educare a pensare. Se non possiamo, sfortunatamente, vedere Manzi “all’opera”, questo programma è ciò che più si avvicina alla situazione (ed è fruibile da tutti presso le Teche RAI): in questa formazione rivolta agli insegnanti della primaria, infatti, il maestro è ripreso, assieme a un gruppo di bambini, in situazioni della quotidianità scolastica, dove affronta differenti nodi disciplinari e poi, rivolto al pubblico di insegnanti, motiva le sue scelte didattiche.

Nella prima parte dell’incontro, attraverso i romanzi e nelle aule della scuola elementare, abbiamo quindi potuto ricostruire alcuni aspetti fondamentali della pedagogia del maestro. D’Antonio ha messo in evidenza come la filosofia del «Ogni altro sono io», frase pronunciata dal personaggio di un romanzo del maestro, si esprima, nella didattica nel maestro, innanzitutto nel senso di responsabilità che egli assume nel lavoro educativo. Questo significa rifiutare di essere complici con sistemi (anche educativi) ingiusti. Come ha sottolineato la dottoressa, la lezione migliore in questo senso ce la fornisce il Loco, il protagonista dell’omonimo romanzo di Manzi, quando afferma che: «Se uno fa quello che fa senza capire perché lo fa… è proprio matto!».

La ricerca di senso è centrale nella relazione educativa e coinvolge tanto l’insegnante, quando gli studenti. È fondamentale dare importanza a una dimensione auto-riflessiva che si domandi e stimoli gli studenti a chiedersi: cosa stiamo facendo e che senso ha? Questa è la base per un sapere non trasmissivo. Per educare gli alunni a pensare, il maestro Manzi utilizza la maieutica e la discussione. Questa propensione apre alla critica e al cambiamento e può spaventare chi non è abituato a esercitarla. Di nuovo, questo insegnamento è personificato da un personaggio dei romanzi di Manzi, ossia il Commissario di E venne il sabato, che inizialmente è spaventato dalla creazione di una nuova scuola, nel villaggio di Pura, perché «Non è una scuola dei numeri». Tuttavia, nel corso del racconto, matura la fondamentale consapevolezza che ognuno ha un suo “pezzetto di verità” che va ascoltato, anche coloro che normalmente non hanno voce per esprimerlo. 

Quella di Manzi si declina quindi come una pedagogia dell’empatia, che si apre alla vulnerabilità e, come ha sottolineato Mazzoli, all’imprevisto. Il maestro rimarcava sempre l’importanza del fatto che gli alunni ragionassero sulle cose e le capissero, perché imporre dei concetti non produce un reale apprendimento. Per assumere questa postura pedagogica è necessario tenere a mente che l’alternativa non è la pedagogia tradizionale, ma il nulla. Questa affermazione, indubbiamente forte, non era di natura ideologica per Manzi, che basava le sue scelte didattiche su studi di psico-pedagogia al tempo assai all’avanguardia e tuttora attuali (Bruner e Vygotskij in primis). In una puntata di Educare a pensare, per dimostrare ciò, Manzi spiega ad un gruppo di bambini, in maniera trasmissiva, una lezione di scienze e noi, pubblico adulto, ci rendiamo immediatamente conto che la nostra stessa attenzione si dilegua in pochi secondi.

La pedagogia di Manzi è ben esemplificata in una semplice quanto interessante attività che sempre proponeva ai suoi alunni. Quando passava fra i banchi per correggere un compito assegnato, dopo aver annotato le sue indicazioni, disegnava uno scarabocchio in fondo al foglio dicendo: «Bravo, ora continua!». I ragazzi erano invitati quindi a completare lo scarabocchio, usando la propria fantasia. Questo consentiva al maestro di tenerli occupati mentre correggeva i compiti degli altri. Si tratta di una strategia didattica utile, che può essere utilizzata solo se l’insegnante tollera e apprezza la perdita di controllo. Dimostrativa della capacità del maestro di tollerare e valorizzare l’imprevisto è anche una frase che ripeteva sempre Manzi ad alunni e alunne: «Non ho capito!», per dare il via a processi maieutici.

La seconda parte dell’incontro ha visto il contributo del dottor Andrea Mulas e del professor Paolo Vittoria.

Il primo è ricercatore della fondazione Lelio e Lisli Basso di Roma, esperto di storia e politica sudamericana e autore di interessanti articoli su questa parte della vita e dell’esperienza educativa di Manzi, fra cui: L’America latina di Linda Bimbi e Alberto Manzi (2020). Il maestro infatti, dalla fine degli anni Cinquanta e per circa vent’anni, tutte le estati si recava in differenti paesi del Sud America, soprattutto nell’area andina, come alfabetizzatore volontario delle popolazioni locali. Manzi svolgeva questi viaggi o in autonomia, o appoggiandosi ai missionari Salesiani. La conoscenza di alcuni preti della Teologia della liberazione è stata per lui estremamente arricchente e il loro posizionamento politico era molto affine. Infatti, il maestro concepiva l’alfabetizzazione come uno strumento politico fondamentale: solo sapendo leggere e scrivere le masse di campesinos e minatori sfruttati dal sistema neoliberista avrebbero potuto iscriversi ai sindacati, lottare per i loro diritti e, più in generale, risvegliare le proprie coscienze e intraprendere percorsi di cambiamento collettivo. Dopo aver approfondito i contesti storici in cui Manzi operava, Mulas ci ha condotto nella comprensione delle similitudini che sussistono fra l’educazione popolare del brasiliano Paulo Freire, la cui pedagogia della liberazione trae spunti ed è fortemente interconnessa con la Teologia, e l’educazione popolare del maestro Manzi: il filo rosso fondamentale è rappresentato dal fatto che, per entrambi, l’alfabetizzazione è un’importante strumento di liberazione.

Infine, il professor Paolo Vittoria, docente di Pedagogia generale e sociale presso l’Università Federico II di Napoli, ci ha aiutato ad analizzare ulteriormente le connessioni fra educazione popolare ed educación popular che vedono Manzi protagonista, grazie alla sua conoscenza approfondita dei temi e alla sua esperienza decennale di educatore e ricercatore presso l’Università di San Paolo. Il professore ha curato il volume “Educare a distanza” (Marietti, 2020) dove ha intervistato, fra gli altri, il professor Roberto Farné su Non è mai troppo tardi. Corso popolare per adulti analfabeti. 

Vittoria ha iniziato il suo intervento proponendoci di focalizzare l’attenzione sulla potente immagine del maestro Manzi che straccia un copione: quello che gli hanno dato al provino di Non è mai troppo tardi. «Chi ha scritto questo copione non capisce niente!» aveva affermato Manzi, contestando il fatto che non fosse stato redatto in maniera adatta al pubblico televisivo, per poi fare la lezione “a modo suo”. Questo strappo è una metafora di quello che Manzi ha fatto nel corso di tutta la sua professione: “stracciare i copioni” della tradizione pedagogica trasmissiva e, per dirla con Freire, bancaria. Oggi, nota Vittoria, siamo di fronte all’educazione bancaria 2.0, che si rispecchia anche nel linguaggio scolastico e universitario, fatto di “crediti”, “competenze spendibili” ed “agenzie formative”, solo per citare alcuni concetti economicisti che permeano la nostra cultura educativa. La differenza fra una pedagogia dell’essere, rispetto a una dell’avere, non sta nei mezzi, ma nel posizionamento e negli obiettivi: ne è testimonianza il fatto che Manzi è riuscito a fare educazione popolare a distanza con la televisione. Il maestro è riuscito a rendere la TV, troppe volte veicolo di intrattenimento acritico, uno strumento utile, a sfruttarne le potenzialità democratiche ed emancipatorie.

Non va tuttavia dimenticato che il progetto pedagogico di Non è mai troppo tardi prevedeva una parte fondamentale “in presenza”, fortemente ancorata ai contesti: i Punti di Ascolto Televisivo (PAT) erano infatti dei presidi, che si trovavano su tutto il territorio nazionale, presso luoghi di aggregazione come scuole, oratori e bar, dove le persone si riunivano a guardare la trasmissione, affiancati da insegnanti dello Stato. Il lavoro territoriale era quindi una parte fondante della sperimentazione educativa degli anni Sessanta.

Il progetto di Non è mai troppo tardi si è configurato quindi come molto distante da quei percorsi di alfabetizzazione minima e meccanica troppo spesso promossi da vari governi del mondo, con obiettivi meramente estensionisti: allargare la competenza minima di letto-scrittura della popolazione, ma senza guardare alla qualità dell’insegnamento proposto. È questo il caso del Brasile, dove il metodo rivoluzionario di alfabetizzazione proposto da Freire prende le mosse proprio dalla critica nei confronti di queste “posture” educative neocolonialiste, che affondano le loro radici fuori dai contesti a cui fanno riferimento configurandosi come trasmissive, bancarie e addomesticanti.

A questi approcci, il pedagogista brasiliano oppone il suo, critico e rivoluzionario e ne paga le conseguenze. Il professor Vittoria ha evidenziato quindi come, lo “strappo del copione” non è stato senza conseguenze, sia nel caso di Freire, che in quello di Manzi, il primo incarcerato ed esiliato dal regime di Goulão e il secondo sospeso per alcuni mesi dall’insegnamento, senza stipendio. La vicenda che culmina con questo provvedimento ha luogo all’inizio degli anni Ottanta, quando Manzi ha suscitato le ire del suo dirigente scolastico e viene esaminato dal Consiglio disciplinare, per aver rifiutato di compilare le pagelle dei ragazzi della sua classe, dove c’erano molti studenti con disturbi di apprendimento. Il maestro aveva creato un timbro, diventato famoso, da stampare su tutte le pagelle della classe, recante la dicitura: “Fa quel che può, quel che non può, non fa”. Questa frase e questa vicenda sono esemplificative dell’importanza e del rispetto che il maestro aveva nei confronti dei bambini, che per lui venivano prima di tutto, a prescindere dalle conseguenze. Come ha evidenziato Vittoria, gli occhi di adulti, i bambini possono apparire “disordinati”, ma nulla ci dà il diritto di mancare di rispetto a questo disordine.

Dalle scuole primarie italiane all’alfabetizzazione con gli adulti in televisione e sull’altopiano andino, questo Seminario è stato uno splendido viaggio nell’avventura educativa del maestro Manzi, nello sforzo di rispecchiare la semplicità e al contempo la profondità che caratterizzano la sua pedagogia.

Articolo a cura di Claudia Paganoni